IL SENSO DELL'IMPRONTA.
Tracce e svelamenti nell'idea delle Mappe Cognitive.
Di Tommaso Evangelista
Fare un'impronta significa produrre un segno attraverso la pressione di un corpo sulla superficie. Si dà il caso che tale procedimento meccanico sia tra le più antiche forme espressive dell'uomo; il contatto che genera traccia e produce per via negativa o positiva un segno in un sistema privo di cornici o condizionamenti spaziali. È la nascita delle prime forme attraverso la possibilità della riproposizione per contatto. L'idea quindi dell'opportunità di adoperare una matrice per produrre orme è tanto remota che quasi ce ne sfuggono i confini e pertanto, paradossalmente, ci appare come estremamente contemporanea e spendibile in un discorso attuale sull'immagine.
La serie di Dusi Gobbetti delle Mappe Cognitive ci offre appunto stimoli differenti e anacronistici sui quali riflettere in relazione ai mutamenti della forma nel “sistema” del calco. «Ci sono impronte che ci precedono o ci inseguono ovunque. Molte ci sfuggono, molte scompaiono, talvolta sotto i nostri occhi. Alcune traspaiono, altre cavano gli occhi. Altre sono scomparse da tanto tempo, ma qualcosa ci dice che esistono ancora, sepolte, rintracciabili attraverso qualche diversione archeologica del desiderio o del metodo. A volte, alcune paiono inseguirci. Molte continueranno a vivere dopo di noi» ; l'idea quindi della funzione mnemonica e della rappresentazione, del tempo che scorre e che viene fissato, del ricordo che produce ombre attraverso un fissare impressioni sono tutte immagini insite nel concetto del contatto. L'impronta nasce da un processo di reminescenza e nel caso di Dusi è una riscoperta graduale, nel proprio intelletto, di quelle idee che sono poi causa del mondo sensibile; è questa in fondo la concezione dell'anamnesi adottata da Platone nel Fedone, del risveglio della memoria, poiché conoscere significa ricordare e ricordare equivale a dar forma al proprio mondo interiore. Il discorso sul segno, quindi, si avvicina molto a questo paradigma della visione poiché il segno nella nostra memoria è anche una traccia ben precisa e determinata e che già stiamo riproducendo col solo fatto di visualizzarla all'esterno, compiendo un processo di duplicazione non tanto meccanica quanto fenomenologica.
L'idea delle Mappe nasce negli anni '60 da una serie di tele che si discostavano dalle riflessioni sulla figurazione per indagare elementi geometrici ridotti a tracce; il processo di fissazione delle immagini poteva richiamare, volendo, i famosi Rayogrammi di Man Ray. È lo stesso Man Ray, nel Dizionario del Surrealismo del 1938, a fornircene una definizione che ci apre interessanti orizzonti di senso: «Fotografia ottenuta per semplice interposizione dell'oggetto fra la carta sensibile e la fonte luminosa. Colte nei momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale, queste immagini sono ossidazioni di desideri fissati dalla luce e dalla chimica, organismi viventi». Queste forme rigide e incolori emigrano col tempo nella traccia, diventano linee di condensazione richiamate dall'impronta e formano le odierne mappe intese come schemi riassuntivi di un intero percorso umano e artistico. La visione di un'ossidazione di desideri che diventano elementi vivi e vitali all'interno di un supporto già di per se inadatto come può essere un lenzuolo di stoffa, può divenire uno scavo nella parte più profonda dell'inconscio nel tentativo, forse utopico e disperato, di recuperare una rappresentazione che per forza di cose acquista una connotazione nascosta ma mai inorganica, e comunque sempre positiva.
Una Mappa Cognitiva nasce da un procedimento semi-meccanico di fissazione per contatto; c'è una matrice, forse litografica, che accoglie del colore (rosso), un supporto (la tovaglia di lino) e un'azione. Tale azione non è mai del tutto casuale in quanto è pianificata sul momento dall'artista che è capace, con un procedimento volutamente tenuto nascosto, di indirizzare in parte i segni e le macchie formando appunto un palinsesto di memorie. Attraverso lo svolgere del lenzuolo, quindi, Dusi compie un viaggio sulla superficie che avanza e che man mano accoglie delle tracce, e all'interno di se stesso, tra memorie e segnali. È il tentativo di strutturare una conoscenza segnica tanto labile che ha bisogno di ancorarsi lentamente al supporto prelevando frammenti cognitivi, appunto, dal colore esclusivamente rosso. Si tratta di un'esigenza, di un voler superare il confine nel tentativo di incanalare flussi e impressioni su un piano mobile e volubile come può essere la trama di un lenzuolo. Ecco allora che leggiamo macchie, campiture, linee, solchi, spazi bianchi, interruzioni, mancanze, saturazioni come “eventi” accaduti nell'attimo della fissazione e per questo da considerare non come forme casuali o caotiche bensì come estreme composizioni e riflessioni sullo spazio.
Ritengo che il modo migliore per leggere le Mappe sia quello di rintracciare in esse il segno e non il simbolo, ovvero lasciare che affiori l'impronta senza cadere nella metafora, che potrebbe portare a pericolosi accostamenti. Solo lontanamente, infatti, possiamo leggere nelle tele la ricerca di un sacro che viene giustificato esclusivamente dall'indubbio legame che può essere percepito tra il lenzuolo dell'artista e i “sacri lenzuoli” che ci ha lasciato la cristianità, uno su tutti la Sacra Sindone. È un errore, ritengo, però cercare un senso di religiosità e liturgia su una superficie che non deriva dalla passione o dal martirio bensì da una ricerca lucida e quasi ossessiva, con l'artista consapevole artefice del processo costitutivo. Se proprio vogliamo pensare ai tessuti come a scarti ospedalieri, residui di un'immane tragedia, leggendo quel rosso come sangue e traccia estrema di una catastrofe, allora, forse sarebbe meglio guardare alle opere di Burri realmente fatte di carne dove le suture, i tagli, gli interventi con bende e garze si riferiscono si al suo passato medico durante la guerra, ma dove il rosso allude alla ferita non tanto del singolo quanto della collettività in seguito agli orrori dell'uomo. Lo stesso discorso “medicale” vale con Beuys, pilota dell'aeronautica tedesca abbattuto nel 1943 in Crimea e salvato da alcuni nomadi che lo curano ungendolo con grasso animale e avvolgendolo nel feltro, il quale propone spesso questo discorso sul tessuto e la tragedia. Oppure potremmo spingerci fino alle “azioni” di Nitsch e al suo cruento teatro neopagano con tanto di produzione di tele per contatto “sanguigno”.
Il supporto non è la classica tela da pittore bensì un lenzuolo non intelaiato sul quale è possibile leggere tutto un gioco di trame e di cuciture. I riferimenti, come visto in precedenza, hanno poco a che fare col sacro “sindonico” oppure con l'orrore della catastrofe ma riguardano l'idea di una libertà esecutiva non vincolata a margini predeterminati che rimanda direttamente all'arte preistorica quando non esisteva il concetto di cornice o di spazio della raffigurazione e allora la raffigurazione acquistava i confini dell'interno spazio, quando non dell'intero mondo. In tal caso l'assenza di una cornice porta a pensare all'apertura e all'infinito discorrere del segno, come se ci trovassimo di fronte a frammenti di una costruzione ben più complessa e articolata, un'immensa parete bianca che accoglie tutte le conformazioni possibili e immaginabili delle linee.
Il paradosso degli oggetti che si producono per impronta è dato dal fatto che il contatto di cui restano i legittimi depositari è spesso straziante e non ci autorizza alla perentoria identificazione con il suo referente nella realtà, a volta anzi lo nega. Nel caso di Dusi questo contatto non è sottrazione di essenza o rappresentazione secondaria del disagio dell'immagine; è in effetti un viaggio imprevedibile e calcolato allo stesso tempo su una superficie nel tentativo di svelare un metodo che faccia della traccia non un feticcio ma un segno denso di vita e di memoria. E forse è proprio questa densità del segno minimo che ci autorizza a non rivendicare la perdita dell'originale ma a ricercare un minimo di senso.