Il Castello di Castel D'Ario

Informazioni rapide

Descrizione

Il castello medievale di Castel d'Ario si presenta oggi come una imponente cinta muraria, lunga circa 300 metri, inframezzata da tre torri perimetrali e da quella di accesso, preceduta dai resti dell’antico rivellino.
Una quinta torre, più massiccia ed elevata, si trova all’interno, inserita in una sporgenza della cinta: è la torre definita della “Fame” nella seconda metà dell’Ottocento, ma in realtà è la costruzione più antica di tutto il castello e quanto resta della complessa struttura della rocca. La rocca (ormai da secoli priva della parte di cinta all’interno del castello, con adiacenti terrapieno e fossato) ha costituito infatti fino al tardo Cinquecento una fortezza a se stante, protetta da basse mura che all’esterno davano su terrapieno e fossato e all’interno, intorno alla torre, su un analogo terrapieno che permetteva l’utilizzo delle feritoie senza bisogno di spalti soprelevati. Un unico accesso pedonale, a sud della rocca verso l’argine del canale Molinella, era fornito di ponte levatoio, mentre un altro ponte levatoio, completo di rivellino, collegava la rocca con l’interno del recinto.
La torre della Fame ha pianta quadrata di oltre 10 metri di lato e si innalza per circa 24 metri; ma la sommità, che pure presenta all’interno un volto a crociera intatto, è priva della merlatura e di una ulteriore torretta che ospitava la campana del borgo, indispensabile per segnalare le ore del lavoro e i vari pericoli. Sulle pareti a nord e a ovest della torre sono ben visibili le impronte dei solai di una torre angolare ad essa addossata, detta torresino, che consentiva tra l’altro l’accesso tramite scale in legno ai vari piani, privi di collegamenti interni.
L’articolata conformazione della rocca rispondeva a funzioni ben precise: era un posto di guardia del territorio e dall’alto controllava tutto il circondario, ricevendo e trasmettendo alle torri vicine, disposte sul confine mantovano, avvistamenti di nemici o situazioni di pericolo tramite segnali luminosi (lumere) o sonori (bombarde).
Nella rocca vivevano il castellano con la famiglia, vari militi e guardie; mentre ben due piani della torre erano adibiti a prigione: quello superiore e quello inferiore, teatro – quest’ultimo - di morti atroci. Nel 1321 vi furono infatti rinchiusi a tradimento e lasciati morire di fame tre membri della famiglia Pico della Mirandola ad opera di Passerino Bonacolsi; e nel 1328 quattro Bonacolsi subirono uguale sorte per volere dei Gonzaga. I resti di sette scheletri, uno dei quali con la tibia ancora nei ceppi, furono rinvenuti a metà Ottocento durante i lavori di sgombero del materiale franato nella cella per ricavarvi una ghiacciaia e attribuiti agli storici sventurati.
Da quel momento la torre, già ridotta da tempo a cimelio inutile, acquistò nuova importanza. Fu descritta (e si scoprì allora che due pareti del secondo piano erano affrescate con figure femminili, oggi leggibili molto a stento e bisognose di un urgente restauro), disegnata (il primo ‘spaccato’ è del 1853), indicata come monumento nazionale e come tale salvaguardata assieme all’adiacente recinto del castello. Il recinto (cioè tutto il rimanente spazio del castello) è sicuramente costruzione successiva alla rocca e, anche se in un documento del 1273 risultano coesistere entrambi, non è detto che già da allora esso avesse l’attuale fisionomia in quanto vi si possono individuare vari particolari ascrivibili a epoche successive.
Certo è che le due fortezze che compongono il castello e cioè la rocca e il recinto sono facilmente distinguibili anche oggi: la zona attorno alla torre ha mura più basse e più antiche e sporgenti rispetto alla facciata del castello; mentre il contorno del recinto si snoda su tre lati con file di buche pontaie che sottolineano il doppio cammino di ronda terminante all’interno del palazzo pretorio. In più sono evidenti i due tratti di muro che collegano le due zone suddette; muri privi di camminamenti, con feritoie basse e disposte in modo irregolare e con evidenti segni di interventi nel tempo.
Anche il recinto aveva una sua specifica funzione: doveva ospitare gli uomini del borgo, i loro beni ed i soldati nei frequenti casi di pericolo. All’interno del recinto la costruzione più importante era il palazzo pretorio, dimora del vicario (cioè del funzionario del signore-padrone) che esercitava una vigilanza assoluta, ma c’erano pure altre case, magazzini, depositi se pur rudimentali. Nel castello infatti venivano convogliati tutti i prodotti della terra per essere registrati, tassati e conservati; il loro periodico prelievo, per il sostentamento o per la semina, era pure accuratamente sorvegliato.
La funzione della rocca come vedetta e del recinto come rifugio cessa intorno a metà Cinquecento quando viene meno il ruolo del castello come fortezza di confine. I Gonzaga, che in quel periodo governano il paese (l’hanno avuto in sub-feudo dal vescovo di Trento che a sua volta l’aveva avuto in feudo dall’imperatore nel 1082, e lo terranno per circa quattro secoli, dal 1328 al 1708) hanno infatti spostato le loro mire di potere verso il Monferrato e i castelli sul confine veneto non vengono aggiornati militarmente e anzi la stessa manutenzione diventa compito della popolazione locale.
Così, nel corso del Cinquecento, il castello di Castel d'Ario si trasforma in un vero e proprio borgo, con palazzi (uno viene chiamato “la palazzina”), vie, piazza centrale. Oltre al vicario con famiglia e ad alcuni suoi collaboratori, vi risiedono il massaro (o contabile, pure con famiglia e parenti), vari inquilini proprietari o in affitto, il banchiere ebreo (insediatosi nel 1514, anche con la famiglia). Compresi in vari edifici, tra cui anche la torre della rocca, vi sono poi cantine e granai utilizzati da nobili e notabili locali e una casa di proprietà del mulino. E sempre c’è qualche locale adibito a prigione
La floridezza del borgo cessa nel 1630 in seguito alla terribile epidemia di peste che decima la popolazione e manda il rovina il manufatto. Verso fine Seicento, al centro del castello risulta un campo coltivato a mais.
Nel corso del Settecento, quando il paese ritorna sotto il dominio diretto di Trento, le asportazioni di materiali sono numerose e documentate. Sparisce il torresino addossato alla torre della rocca e già in parte franato e le sue pietre vengono utilizzate per ultimare il volto della nuova chiesa e per costruire l’intero campanile; mentre materiali prelevati da punti imprecisati servono per il nuovo municipio e anche per costruzioni private nella nuova Piazza con portici.
Il palazzo pretorio, unica costruzione rimasta abitabile, viene restaurato ma ridotto di lunghezza e adibito a sede delle guardie e delle prigioni. Funzione che prosegue anche durante l’epoca napoleonica quando vi si insedia una brigata di gendarmi a cavallo. Per rispettare le nuove disposizioni in merito, si aprono varie finestre nella parete che coincide con la cinta muraria alla destra dell’entrata del castello.
Ormai è semi-distrutto il rivellino, sparita l’intera merlatura, eliminato il sistema di fossati interni ed esterni. Attorno al castello resta l’antica valle, che un tempo veniva allagata per difesa ma che almeno da inizio Seicento è coltivata a risaia. E tale resterà fino alla prima guerra mondiale causando non pochi problemi di salute agli inquilini del castello. Infatti, a pochi anni dal citato insediamento della gendarmeria sotto Napoleone, le guardie chiedono di essere trasferite perché si ammalano continuamente di febbre malarica.
Sotto il governo austriaco, dopo un’estenuante disputa col Demanio che rivendica la proprietà del castello, il Comune riesce invece a dimostrare che è proprietà sua anche se, subito dopo la conclusione della vertenza, tenta per due volte di venderlo in quanto si rivela un possesso che abbisogna di manutenzione continua e onerosa. Ma manca l’acquirente e così il disastrato maniero viene sfruttato al limite delle sue possibilità ed i restauri si riducono a rappezzi quando non se ne può proprio fare a meno.
Ogni vano, anche angusto, viene affittato. Ogni fazzoletto di terra coltivabile pure. Ogni angolo capiente diventa deposito di attrezzature comunali ingombranti, come il carro funebre o la botte per innaffiare le strade. Nel 1851 si ricava la ghiacciaia comunale nella torre della rocca. Nel 1865 si adatta a macello comunale la torre perimetrale a nord e si costruiscono due stallette adiacenti.
A inizio Novecento si permette a vari privati di costruire stanze e baracche addossate alle mura interne.
Solo intorno agli anni Trenta, dopo l’alzata di scudi della Soprintendenza, si mette un po’ di ordine. Il castello diventa Casa del fascio; ripulito dentro per ospitare esercitazioni e spettacoli, e anche all’esterno dove si ricava il primo campo da calcio. Al termine della seconda guerra mondiale, dato che il manufatto non ha subito danni, torna ad essere affittato a vari inquilini, ma per pochi decenni. Di nuovo abbandonato, è oggetto di restauro solo verso la fine del secolo e allora, quando si mette mano alle pareti del palazzo pretorio, si scopre che sotto i resti di intonaco spuntano affreschi con gli stemmi degli Scaligeri.
Si esegue un veloce recupero, senza approfondimenti specifici.
Eppure la storia spiega il perché della presenza di quegli stemmi.
Per vent’anni (1357-77) i ricchi e potenti signori di Verona avevano avuto in pegno il castello dai Gonzaga a fronte di un prestito consistente in fiorini d’oro. In quel periodo, quali proprietari di un castello ceduto sì ma completamente spoglio, avevano dunque provveduto all’arredo non solo militare e domestico, ma anche alle decorazioni.
La “firma” di Cansignorio, l’ultimo grande e spietato scaligero morto nel 1375, è nella sua iniziale incoronata che affianca vari stemmi riproducenti il cimiero alato e la scala a cinque pioli con i mastini rampanti.
Ora, il salone affrescato, al piano nobile del palazzo pretorio, è diventato luogo di rappresentanza ed ospita mostre, spettacoli ed eventi di vario genere.
Il piano terra è adibito a biblioteca comunale, mentre il sottotetto è sfruttato come spazio espositivo aggiunto o ad uso degli artisti in occasione degli spettacoli.

testo di Gabriella Mantovani – maggio 2010

Gallerie immagini

Gallerie immagini